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Nocera Terinese, Catanzaro, Italy
insegnante quasi a tempo pieno, amo vivere in campagna pur avendo un'anima cittadina...è una delle mie tante contraddizioni

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domenica 3 maggio 2009

riflessioni

Ieri sera ho avuto l’occasione di trascorrere una piacevole serata in compagnia di alcune persone australiane, in visita in Italia, grazie ad un progetto di “scambio” culturale.
La relazione con i nostri ospiti, inizialmente impacciata a causa del pessimo inglese parlato dal gruppo italiano, si è sciolta tra un bicchiere di birra e una fetta di ottima pizza, soprattutto grazie al desiderio reciproco di comunicare e di conoscersi, di scambiarci esperienze e punti di vista. Al di là dei tentativi piuttosto goffi di rispolverare l’inglese scolastico, molto si è giocato sulla comunicazione non verbale, facendo quindi ricorso alla mimica facciale, alla gestualità e a tutti i segnali paralinguistici che trasmettevano emozioni e intensità ai contenuti comunicati, rendendo brillante, simpatica e molto “italiana” la conversazione.
Seduto al mio fianco c’era il vice preside di una scuola australiana che, comunicando con un amico italiano, gli chiedeva se fosse presente su facebook. L’amico, piuttosto imbarazzato, ha chiesto subito aiuto alla figlia adolescente che, con naturalezza e spontaneità, si è dichiarata disponibile a fare da intermediario tra i due.
Da questo episodio è nata spontanea la riflessione sul digital divide, sullo scontro generazionale tra i “digital natives” sicuri e abili padroni dei nuovi linguaggi, e i “digital immigrants”, che annaspano faticosamente nel mondo digitale. È una separazione che ci allontana sempre di più dai nostri giovani, al ritmo veloce delle innovazioni tecnologiche, e che rischia di renderci estranei gli uni agli altri, pur essendo abitanti dello stesso pianeta nella stessa era.
Stamattina, poi, ricevo una visita a casa: è un ragazzo di venti anni che mi chiede come fare per ottenere la licenza media. Sono certa che a casa ha a disposizione un computer e un collegamento ad Internet, che si destreggia con le nuove tecnologie, e che comunica quotidianamente attraverso social network. Ha più volte ripetuto una classe della scuola secondaria di 1° e poi si è arreso.
Mi domando che cosa possa avere causato l’abbandono scolastico in questo giovane e rifletto sulla scuola, fondata esclusivamente sul libro di testo, sulle lezioni ex cathedra, sui voti e sugli esami, in tempi rigidamente stabiliti, che non è riuscita a realizzare il progetto di alfabetizzazione universale della popolazione; non solo è fallito il progetto illuminista e umanista della repubblica della ragione, secondo cui tutti avrebbero saputo leggere e pensare con la propria testa, facendo valere le proprie ragioni, ma il fallimento si riscontra anche nel nostro occidente industrializzato, quando verifichiamo che ad un ragazzo non bastano otto anni di scuola per imparare a leggere e comprendere un testo.La divisione tra scuola e mondo, tra studenti e docenti sul fronte della capacità di utilizzo delle nuove tecnologie, la conseguente difficoltà del connubio tra scuola e tecnologie si evidenzia dalle modalità, completamente differenti da quelle che la scuola utilizza, con cui i nativi digitali apprendono, soprattutto quegli studenti che, come dice Marc Prensky in un suo famosissimo articolo, http://nilocram.altervista.org/spip/IMG/pdf/Engage_me_it4.pdf ci ignorano, convinti che la scuola sia completamente priva di interesse

lunedì 13 aprile 2009

A proposito di copyright

Proprio mentre cercavo di riflettere sul tema del diritto d'autore nell'era di Internet, grazie ad un articolo apparso su D di Repubblica l’11 aprile (Giù le mani da quel file, di Giuliano Di Caro), mi sono imbattuta sul pensiero di due esperti che la pensano in modo diametralmente opposto sull’argomento.
Andrew Keen, autore del libro Dilettanti.com, prossimamente in uscita in Italia per De Agostini, ritiene che il web 2.0 abbia spianato la strada alla corruzione della cultura., in quanto è stato permesso a tutti di diventare giornalisti, artisti, scrittori, a scapito del lavoro creativo di coloro che egli definisce “autori veri”, intendendo il Web 2.0 come un semplice contenitore di contenuti trascurabili, gratuiti e prodotti dal basso, anonimi e privi di restrizioni che finiscono con il distruggere l’intero sistema dei media tradizionali.
Sul fronte opposto si pone, invece, Lawrence Lessing, avvocato consigliere di Obama e autore di Free culture, un equilibrio tra anarchia e controllo, contro l’estremismo della proprietà intellettuale, http://www.copyleft-italia.it/pubblicazioni/Lessig-CulturaLibera.pdf, che, definendo il copyright contemporaneo “minimale e flessibile”, al fine di rendere lo sharing il più legale possibile, secondo la riflessione che noi abitiamo un mondo di creatori cui tocca sperimentare insieme nuove forme artistiche, ha creato Creative Commons, http://creativecommons.it/ un set di licenze in parte protette e in parte open, non in competizione con il copyright, ma in grado di integrarlo. Insomma, un copyright flessibile per opere creative, il cui obiettivo è quello di usare “la forza di Internet” per essere creativi, per collaborare, per superare le barriere dello spazio e del tempo. Per ulteriori chiarimenti, consiglio di guardare l’animazione http://www.creativecommons.it/DiventaCreativo
Per capire il nuovo compromesso che coniuga libertà di accesso ai file e tutela dei diritti, si può consultare http://www.spotify.com/en/#top, che consente di avere a disposizione l’accesso gratuito (per ora in Italia sia pagano 9,99 euro al mese, ma presto sarà gratuito anche da noi) a un grande catalogo musicale. Ogni dieci canzoni parte uno spot di venti secondi, i cui proventi vengono distribuiti tra etichette e artisti.
Potrebbe essere una soluzione, no?

giovedì 9 aprile 2009

"Bisogna riconoscere che l'intelligenza è distribuita dovunque c'è umanità, e che questa intelligenza, distribuita dappertutto, può essere valorizzata

La rilettura di alcune interviste fatte a Pierre Levy, alla luce dei miei interessi di oggi, mi ha permesso di fare alcune riflessioni in merito al tema delle connessioni.
In sintesi
- oggi è cambiato il rapporto con il sapere, che non è più un tutto organico controllabile, ma diviene flessibile. Se si resta con la nostalgia di una cultura ben costituita, organica, con la nostalgia di una totalità culturale, non se ne esce. La conoscenza, la cultura, è qualcosa che si sta definitivamente detotalizzando; viviamo in un'epoca in cui una persona, un piccolo gruppo, non può più controllare l'insieme delle conoscenze e farne un tutto organico;
- quindi è necessario imparare a costruire un rapporto con la conoscenza completamente nuovo: pur essendo più difficile, ciò dà molta più libertà all'individuo o al piccolo gruppo;
- da qui l’importanza dell’intelligenza collettiva, che ci porta a riflettere sul gruppo a cui si appartiene e con cui si ha uno scambio più stretto e sul fatto che non si potrà mai sapere tutto e quindi siamo, necessariamente, obbligati a fare appello ad altri, alle conoscenze degli altri, rendendoci partecipi degli scambi di conoscenza e della interazione planetaria; ciò non porta a perdita della realtà, del territorio o del corpo! La perdita, in un certo senso, è nella dissociazione degli spazi gli uni in rapporto agli altri. La verità è che lo spazio fisico non corrisponde più allo spazio economico, allo spazio semantico, allo spazio relazionale.
- Si crea così l’identità collettiva non più fondata su criteri di vicinanza geografica, ma su interazioni che avvengono a partire da temi, idee, passioni. L'identità collettiva esiste dall'inizio dell'umanità nella misura in cui le persone fanno parte di tribù, di clan, di famiglie, di nazioni, di regioni. Quando tutti erano contadini e abitavano in piccoli alloggi, lo spazio fisico, geografico, territoriale era identico allo spazio affettivo: tutti quelli che si potevano conoscere, che si potevano amare, appartenevano al villaggio. Oggi le identità collettive non si fondano più unicamente su criteri di vicinanza geografica, ma nella civiltà dove stiamo per entrare, il territorio principale è quello semantico, cioè la zona di significazione. I 'nodi d'interazione' presenti nella comunicazione in futuro diventeranno i punti di riferimento cardine delle comunità sociali, molto più dell'appartenenza ad un territorio fisico, in quanto esiste un gran numero di spazi: c'è lo spazio fisico e geografico, ma anche quello affettivo, che attraverso la cybercultura permette un avvicinamento delle persone, sia attraverso la comunione di interessi, sia con la condivisione di esperienze e vissuti. È quanto stiamo vivendo in questa nostra esperienza formativa, che ci arricchisce quotidianamente, attraverso una comunicazione fatta di messaggi che ci aiutano a trovare dei riferimenti, a orientarci, ad articolare diversi punti di vista, spesso mettendo da parte le preoccupazioni e i pensieri personali, a vantaggio di una nuova apertura verso l’altro.

sabato 4 aprile 2009

Non può esserci qualcosa che non ci riguarda, perché ciò significa morire

Ho molto apprezzato l’idea di Andreas di scioccare per offrire un messaggio importante, che diviene lezione per tutta la vita. Anche io, che ieri sera ho vissuto l’evento del convegno “in differita”, e per giunta senza premesse a causa del ritardo con cui mi sono collegata all’incontro del venerdì, all’inizio non capivo e mi sono trovata disorientata, perché la situazione, il modello ideale di lezione, di convegno, non rispondeva alle mie attese.
Man man che il convegno procedeva in modo stravagante e bizzarro, con l’entrata in scena di ridicoli personaggi che alteravano visibilmente l’umore del professore, il rapido susseguirsi di situazioni grottesche, mi hanno indotto a riflettere sulla capacità di Andreas e degli altri ragazzi di sapersi mettere in gioco, per rompere le aspettative, per uscire dal solco tracciato della comunicazione formale, creando quell’attesa utile a spianare il terreno per recepire messaggi, magari non esplicitamente detti, ma che possono essere colti quando non siamo distratti o annoiati da una comunicazione fredda e impersonale.
Il nuovo, l’imprevisto, l’inatteso, uniti al clima di ilarità suscitato dalle gag, sono stati lo strumento, l’espediente per comunicare il messaggio che era alla base del Convegno: il famoso ”I care”, inteso come cura empatica, come tensione verso l’altro, come passione per il proprio lavoro, come desiderio di lavorare in squadra, migliorando, attraverso la creatività, la qualità delle relazioni e della comunicazione.

martedì 31 marzo 2009

Albert Einstein diceva “che apprendere significa sperimentare. Il resto è solo informazione”.

Da una breve ricerca, traggo alcune informazioni circa l’organizzazione della scuola in Finlandia, nazione i cui ragazzi, secondo i dati dello studio Pisa (Programme for international study assessment), condotto su 400mila 15enni di 57 Paesi, sono i meglio preparati in lingua, matematica e scienze. Quali sono i segreti della scuola finlandese?
La scuola è l’investimento prioritario del Paese: ben l’11% del bilancio finlandese è destinato alle scuole. Non esistono tasse scolastiche; gli studenti usufruiscono gratuitamente del materiale scolastico, dei pasti e dell’assistenza sanitaria a scuola.
I bambini vanno quasi tutti all’asilo nido e poi alla scuola materna dello stesso distretto, il che consente grande omogeneità educativa: fin dalla prima infanzia si coltivano autoriflessione, senso di responsabilità, empatia e collaborazione considerate qualità ideali per l’apprendimento.
La scuola inizia a sette anni compiuti e per il 99,7% dei bambini (immigrati e rom compresi) termina nove anni dopo, “nessuno escluso”, come dice la legge istitutiva della scuola.
Tutte le scuole hanno un team di insegnanti, di docenti di supporto per chi è in difficoltà di apprendimento e psicologi, che attivano speciali osservatori per il benessere dei ragazzi.
In classe, fino ai 13 anni, niente voti, (si usano le faccine “smile” e si pratica l’autovalutazione) per far studiare lo studente con la sola ed unica spinta del desiderio di apprendere e non con il timore del voto come deterrente; le interrogazioni non hanno nulla a che fare con giudizi punitivi o selezioni.
La pedagogia finlandese parte dalla convinzione che tutti i bambini possano imparare a leggere, scrivere, fare di conto e parlare tre lingue come imparano a correre e parlare, senza umiliazioni.
Si impara facendo. Un fare che è sperimentare l’apprendimento con i 44 sistemi sensoriali. Si rifugge dal nozionismo e molta parte del lavoro è data dal lavorare insieme ai ragazzi.

Leggo poi che il sistema didattico finlandese è frutto di una oculata riforma del sistema educativo, avvenuta negli anni Novanta, e di una cultura della trasparenza e della responsabilità che caratterizza il popolo nordico.
La riforma si è realizzata in tre fasi:
1) progetti di lancio di servizi nel campo della ricerca, educazione e aggiornamento, anche in supporto alle biblioteche pubbliche
2) attenzione ai contenuti e alle modalità di utilizzo delle nuove tecnologie nella didattica, nei processi lavorativi e nel tempo libero,
per garantire, entro il 2004, uguali opportunità a tutti i cittadini nello studio e nello sviluppo della loro cultura, usando in modo estensivo le risorse informative e i servizi educativi, secondo un modello di alta qualità di insegnare e di fare ricerca basato sulla connessione in rete creazione di un modello sostenibile, applicabile in qualsiasi altro Paese, in cui la tecnologia e i servizi devono essere volti al benessere diffuso.

domenica 29 marzo 2009

A proposito del valutare...

Mai più di ora che mi sto preparando per i fatidici “Consigli di Classe” la riflessione sulla valutazione mi sta a cuore. Non perché solo ora, al termine del percorso che è l’unità di apprendimento, pensi a valutare, ma proprio perché ora sono chiamata a farlo scrivendo, attraverso un numero chiaro e netto, quanto attribuisco valore e significato a fatti, dati, informazioni che hanno generato apprendimento in ogni mio alunno.
L’ansia che ne scaturisce dipende proprio dal timore dell’incapacità di lettura e interpretazione dell’intero processo formativo, in cui entrano in gioco processi intellettuali, affettivi, comportamentali e, in ambito collettivo, aspetti relazionali, sociali e comunicativi e dalla constatazione del grande limite, e della grande diffusione anche all’interno del Consiglio, di una valutazione strettamente legata alla misurazione e al controllo degli apprendimenti da parte dello studente.
Quanto valore ho attribuito alla qualità del percorso formativo di ogni ragazzo? Sono davvero stata in grado di identificare conoscenze e abilità possedute come pre condizione, estendendo il concetto di apprendimento a tutte le azioni che precedono, che accompagnano e seguono la didattica? Ho offerto sufficienti spazi e tempi, limitando la mia centralità, per favorire nei ragazzi la costruzione delle proprie esperienze? Ho favorito l’arricchimento e la ristrutturazione del pensiero col confronto degli altri punti di vista, in quel processo negoziale in cui assume un ruolo fondamentale la relazione? Certo è che, man mano che mi addentro in questa nuova esperienza universitaria, leggendo in modo diverso il concetto di apprendimento, mi sforzo ancor più per fare il salto dal quantitativo al qualitativo, dall’oggettivo al soggettivo, dal formale all’esperienziale, convinta del fatto di voler partecipare con i miei ragazzi alla creazione del loro apprendimento, unico e irripetibile, sempre diverso e inaspettato, libero da stereotipi imposti e finalizzato alla costruzione della loro identità.

venerdì 27 marzo 2009

Se è vero che la maggior parte degli apprendimenti avviene spontaneamente in contesti diversi, come risposta a bisogni, a necessità pratiche e concrete, bisogna anche riflettere sul fatto che a determinare i nostri percorsi personali sono l’interesse, la curiosità, la passione, l’amore.
Oggi, di fronte ai miei ragazzi piuttosto distratti, a volte quasi infastiditi di fronte al moltiplicarsi delle proposte scolastiche e al variegato panorama di offerte “culturali”, mi chiedo quali sia la leva che possa far scattare in loro quell’entusiasmo, quella forma di coinvolgimento che può permettere, a me e a loro, di superare i vincoli formali e le soluzioni rigidamente strutturate, tipiche della nostra scuola.
Dopo le riflessioni di questi giorni, capisco che l’obiettivo prioritario della scuola, della mia scuola, oggi, sia proprio quello di aiutare i ragazzi (e non solo loro) a capire quali siano le loro vere passioni e ad abbracciarle, accostandovisi con semplicità, senza timori, senza la vergogna di difendere un’idea o un credo, utilizzando tutta l’energia di cui i giovani sono capaci. È un percorso, quindi, che porta alla scoperta di sé, come essere unico e irripetibile, dotato dei mezzi per conoscersi e per farsi conoscere, al di là di ogni forma di omologazione. È il percorso verso la costruzione della conoscenza, che non può partire se non dalla propria conoscenza, di quello che si è e che si desidera essere. Credo che il nostro compito sia proprio quello di sostenere questo percorso di ricerca, ritenendo non fondamentali gli strumenti, i luoghi, i mezzi che si usano, ma tenendo vivi la passione e l’entusiasmo, la voglia di comunicare e di conoscere, senza separare scuola e vita, ma dando valore all’energia, all’interesse che man man si fa passione e, attraverso la fitta rete di connessioni che si va creando, si traduce spontaneamente in conoscenza.